Lo scorso 1° febbraio, l’esercito ha effettuato un colpo di stato “preventivo” in un paese dove esso già deteneva la maggior parte del potere. Da quel momento deve far fronte ad un massiccio movimento di disobbedienza civile e sembra prepararsi alla repressione militare diretta.
L’esercito (Tatmadaw) è al potere in Birmania dal 1962. Nel 2008, ha redatto una costituzione che gli conferisce il 25% dei seggi (non sottoposti a elezione) alla Camera dei rappresentanti (Camera bassa, equivalente al Parlamento), così come alla Camera delle nazionalità1 (Camera alta, equivalente al Senato); questa stessa costituzione gli consente di nominare i ministri della difesa, degli affari transfrontalieri e degli interni, così come un vicepresidente. L’esercito non è soggetto al controllo civile e ha enormi interessi economici. Si concede il diritto di arbitrare in tutte le questioni legali e costituzionali del paese. I militari hanno, infatti, un diritto di veto su qualsiasi riforma che non piacesse loro dato che, per modificare questa Costituzione, è necessario l’accordo del 75% dei parlamentari, e non sarebbe per loro trovare i necessari sostegni.
C’è probabilmente più di una ragione alla base del putsch del 1° febbraio, comprese le ambizioni personali del capo di stato maggiore Min Aung Hlaing, che sta per raggiungere l’età della pensione (65 anni) e desidera entrare in politica. Il suo futuro è minacciato dai risultati pietosi del partito dell’esercito, il PUSD2, opposto alla Lega nazionale per la democrazia (NLD) nelle elezioni legislative del novembre 2020. Come Donald Trump, la giunta ha dichiarato che i risultati delle elezioni non potevano essere veri. Poco prima dell’insediamento dei parlamentari, ha arrestato i leader della Lega, tra cui il capo dello Stato e Aung San Suu Kyi.
Nel 2015, la NLD, guidata da Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace a lungo imprigionata, ha vinto le elezioni parlamentari. Questo aveva portato ad un accordo tra la Lega e l’esercito. Doveva essere avviata una “transizione democratica”, che tuttavia non includeva alcun meccanismo che la permettesse, come, ad esempio, una riforma costituzionale che disancorasse il potere militare (cosa che poteva essere fatto solo con il loro accordo!). La tanto decantata transizione non ha avuto luogo.
Inoltre, i militari hanno approfittato dell’accordo raggiunto nella scia delle elezioni legislative. Questo si è verificato in particolare nel 2017, quando l’esercito, sotto l’egida del generale Min Aung Hlaing, ha massacrato i Rohingya, una minoranza a maggioranza musulmana, per far posto agli investimenti indiani e cinesi, causando l’esodo di più di 700’000 rifugiati. In quella occasione avevano ottenuto l’appoggio incondizionato di Aung San Suu Kyi, e non tanto per opportunismo, ma perché ella è un’etnonazionalista bamara (il gruppo etnico maggioritario in Birmania). In questa occasione, Suu Kyi ha perso definitivamente il prestigio democratico che aveva acquisito durante la sua lunga detenzione. Inoltre, consapevole del peso economico e strategico della Cina, allo stesso modo dei militari, sta sempre più corteggiando Pechino, senza esserne il suo agente.
La crisi non riguarda quindi gli orientamenti politici, ma la questione della presidenza e delle istituzioni. Secondo la Costituzione, la presidenza deve tornare a una personalità civile, ma i militari hanno impedito ad Aung San Suu Kyi di accedere a questa carica introducendo una clausola scritta su misura, cioè il divieto per le persone sposate con stranieri o con figli stranieri di accedere a una carica politica (è il suo caso). Ufficialmente relegata a ruolo di “consigliera”, Suu Kyi non era quindi il capo di Stato titolare, anche se lo era di fatto.
I successivi successi elettorali del NLD hanno rafforzato la sua posizione, mentre il chiaro fallimento dell’USPD ha indebolito quella del generale Min Aung Hlaing. Il putsch ha lo scopo di porre fine a questo processo che minava l’autorità dell’esercito. Per una gran parte della popolazione, la resistenza al colpo di stato viene quindi condotta in nome della legittimità elettorale della Lega e di Suu Kyi.
Il rifiuto del colpo di stato, sta mobilitando un ampio spettro di gruppi sociali (personale sanitario, dipendenti pubblici, classi medie, impiegati del settore privato, imprenditori, negozianti, ecc.). La mobilitazione è condotta dalla gioventù, denominata “Generazione Z”, che padroneggia le reti sociali, dimostra la stessa inventiva della Thailandia, ricorre al teatro di strada, esprime lo stesso coraggio, usa lo stesso simbolo: le tre dita che indicano il cielo. E fa venire il mal di stomaco ai più vecchi! Altri attori della resistenza, la “Generazione 88” (l’anno di una grande lotta anti-dittatoriale stroncata in un bagno di sangue) con Ko Min Ko Naing come figura di punta, così come il Movimento di Disobbedienza Civile (CMD) e, naturalmente, la NLD, che resta il primo obiettivo della repressione militare.
Un altro aspetto molto importante in questo paese multietnico, è che le mobilitazioni contro il putsch hanno avuto luogo nella maggior parte dei territori popolate maggioritariamente da “minoranze”: Kachin, Kayah, Karen, Chin, Rakhine, Mon, Shan…
La giunta al potere ha cercato di soffocare la protesta scommettendo sul suo esaurimento, bloccando le comunicazioni su Internet, arrestando un numero crescente di personalità politiche e manifestanti e reprimendo (una giovane donna è stata uccisa). Finora senza alcun risultato. Al momento in cui scriviamo questo articolo, la giunta sta mobilitando l’esercito, e non solo la polizia, mentre i carri armati si posizionano nelle grandi città. Sono state prese le prime iniziative di solidarietà internazionale, soprattutto nel sud-est asiatico. C’è un urgente bisogno di rafforzarle.
15 febbraio 2021
* Europe Solidaire Sans Frontières. Traduzione a cura del segretariato MPS.